Investire nell’arte: il ruolo delle gallerie
Quando sono apparse per la prima volta, come abbiamo visto altrove sul nostro sito, le gallerie d’arte vere e proprie avevano un’anima eminentemente commerciale. Questo aspetto di business si è mitigato in qualche modo nella prima parte del XX secolo, quando personaggi come Peggy Guggenheim hanno sovrapposto a quella del commercio una posizione quasi politica: essere in contrapposizione ai “vecchi” musei con artisti nuovi e di rottura.
Oggi stiamo tornando alle origini e anzi potremmo dire che le gallerie ormai vanno a braccetto col mondo della finanza: comprare arte è diventata una forma di speculazione così come il gioco in borsa. Oggi, accanto a veri appassionati d’arte, anche banche e fondi di investimento sono ormai proprietari di lavori di grandi star del mondo dell’arte: ovvio che abbiano fondi inaccessibili alle persone comuni.
Come in ogni speculazione finanziaria che si rispetti, anche in questo universo esistono operazioni poco limpide, tra tutte il fenomeno del flipping.
Si tratta di acquistare un’opera di poco valore, pomparne il prezzo per esempio attraverso articoli o servizi che mirano ad accrescere la visibilità dell’artista, per poi rivendere a prezzo maggiorato a causa dell’interesse che si è “costruito”.
È una pratica fortemente criticata che sta alienando le gallerie dal rapporto coi compratori “non miliardari”, persone che amerebbero circondarsi di opere che però non possono più permettersi. E in più danneggia chi dovrebbe essere al centro della conversazione, proprio gli artisti: sono note per esempio le vicende di Lucien Smith o Anselm Reyle, il quale ha dovuto smettere di dipingere a causa di una speculazione andata male sui suoi lavori, della quale il diretto interessato non era a conoscenza.
Eticamente discutibile, eppure continua a succedere.